La pandemia di COVID-19 interroga fortemente la mobilità delle persone, sia in merito ai meccanismi di diffusione che, di conseguenza, alle misure di contenimento. L’ipermobilità esasperata che caratterizza la contemporaneità – il laissez faire laissez passer – ha favorito innanzitutto la trasmissione del virus dal luogo di origine (la città di Wuhan in Cina) verso altre aree con modalità spazialmente non gerarchiche, a “salto di rana” (leapfrog), insensibili all’attrito della distanza e ai confini; un’ennesima e drammatica conferma di quella che Pierre Veltz definiva nel 1996 la “fine del mondo ben ordinato per la distanza”.
A livello più locale la diffusione sembra invece recuperare un pattern a “macchia d’olio”, più facilmente leggibile e in qualche modo controllabile. La trasmissione del contagio avviene infatti in funzione della prossimità (anche nell’epoca della globalizzazione è quanto mai valida quella che Tobler ha definito la “prima legge della geografia”: tutto è correlato con tutto ma le cose più vicine sono più correlate di quelle lontane), ma anche lungo specifiche direttrici che corrispondono ai flussi di mobilità.
In termini di misure di contenimento, in mancanza di vaccini o di altri rimedi specifici, la strategia per gestire l’emergenza è stata quella del distanziamento fisico e del blocco della mobilità attraverso il lockdown che si sostanzia nel confinamento, nella chiusura degli spazi pubblici e nel divieto degli spostamenti non necessari. (…)
FONTE
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Spazi chiusi, dati aperti: come viene misurata la nostra immobilità
Filippo Celata, Cristina Capineri, Antonello Romano, Che-fare.com, 19 maggio 2020